“Vogliono annientare chi lotta per l’indipendenza della Sardigna”. Intervista a Bruno Bellomonte

23 Mese de idas 2011
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(IlMinuto) – Cagliari, 23 dicembre – "Assolto perché il fatto non sussiste". Erano le 19.04 di lunedì 21 novembre quando la presidente della Corte d’Assise di Roma ha pronunciato la sentenza che ha posto fine ai 29 mesi di carcerazione preventiva di Bruno Bellomonte: in galera dall’10 giugno 2009 con l’accusa di avere partecipato a un tentativo di ricostruzione del brigatismo rosso in vista del G8 della Maddalena, licenziato da Trenitalia nel maggio 2010 prima ancora del rinvio a giudizio. Oggi la redazione del Minuto dà la parola al dirigente di a Manca pro s’Indipendentzia e sindacalista, pubblicando la prima intervista concessa da Bellomonte alla stampa sarda.

La sentenza del 21 novembre ha chiuso il primo grado con assoluzione di quello che consideri senza esitazioni un "processo politico". Chi ha voluto e architettato questo processo? Con quali obiettivi?
Persino alla replica, sostenuta qualche giorno dopo l’arringa, i pm hanno sostenuto che il processo non era politico. Anzi, nelle prime udienze, il PM Amelio è arrivato anche a sostenere che lui difendeva le idee altrui. Per quanto riguarda chi abbia architettato questo processo, non c’è un unico responsabile o particolari soggetti, ma complessivamente è un’azione di repressione orchestrata, avente come obiettivo quello di colpire, annientare tutti coloro e tutto ciò che non è conforme agli interessi del potere costituito, e nel caso della Sardigna tutti quelli che non smettono di lottare per la sua indipendenza e sovranità. Nel caso di noi Sardi, la repressione ha un carattere coloniale, per la sua natura di oppressione e di sottomissione attraverso cui lo stato italiano continua a gestire il suo rapporto di colonizzatore in termini economici, politici, sociali, linguistici, culturali nei confronti della nostra terra.

Il processo – che la redazione del Minuto ha definito una "caccia alle streghe", una forma di maccartismo all’italiana – ha fatto anche un morto, Luigi Fallico. Nessuno gli potrà restituire la parola, e la vita. Però tu, dopo anni di falsità pubblicate impunemente dalla stampa, puoi raccontare il vero Luigi Fallico, a cui abbiamo dedicato il convegno-dibattito "Galere. Storie di ordinaria ingiustizia" di Quartu Sant'Elena del 17 dicembre.
Gigi era un amico, un compagno, ci univa il fatto che entrambi eravamo siculi di origine, ci accomunava la buona cucina e il bere ottimo vino rosso, la storia del movimento operaio, delle sue lotte, delle sue poche vittorie, delle sue molte sconfitte. Gigi era un comunista, sicuramente. Gigi non era un semplice corniciaio, attività che gli permetteva di sopravvivere, era anche un amante dell’arte in particolare della pittura, il suo luogo di lavoro era pieno di molti quadri, alcuni anche di pittori sardi ed era anche un luogo d’incontro per tanti compagni, amava la musica in particolare quella classica ma anche quella rock. Amava i Kenze Neke, il teatro, il cinema specie quello sul realismo, era sempre impegnato nel sociale e schierato per la classe. Il suo sogno era un mondo migliore, diverso da quello dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo un mondo non diviso più in classi, questo suo ideale lo ha pagato con la morte, ucciso dallo stesso regime carcerario che lui aveva sempre combattuto.

Nella conferenza stampa del 26 novembre, a Sassari, hai sottolineato i legami fra la crisi economica internazionale e la repressione dei movimenti che contestano il sistema capitalistico. Qual è il legame fra lotta di classe e carceri?
La crisi economica non può che acuire questi rapporti di sottomissione nei confronti dello stato italiano e con essi il grado di repressione nei confronti della classe, delle sue avanguardie, di tutti coloro che nelle varie forme e con tutti i mezzi si oppongono alla grave situazione creata dall’imperialismo ed in cui sono costretti a vivere. Il legame fra lotta di classe e carceri esisterà sempre fino a quando esisteranno le classi, fino a quando non sarà la classe operaia a gestire il potere, ad essere egemone nell’interesse della classe stessa e delle masse popolari, nello stesso tempo si lotterà per l’abolizione delle carceri e di tutto ciò che esse rappresentano.

Il 18 novembre, a pochi giorni dalla sentenza e a pochissime ore da un sit in organizzato dal Comitato Lavoratori Pro Bellomonte di fronte al Tribunale di Cagliari, la Nuova Sardegna ha pubblicato la notizia del rinvio a giudizio di 20 persone per l’operazione Arcadia, a Manca è stata definita "copertura dell’eversione". Sono solo semplici coincidenze? Che cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni?
Arcadia è uno strumento repressivo in mano allo stato italiano, utilizzata ad uso e consumo di coloro che, a seguito dell’esigenze economiche, politiche e sociali, decidono di intervenire volta per volta seguendo canoni e metodi di repressione già utilizzate in altre occasioni, giustificati solo e sempre dalla finalità di tutela della Costituzione, dei suoi ordinamenti, dell’ordine pubblico ecc.ecc., in altre parole la sceneggiata continua. Arcadia 2006 costruita ed inventata in pochi mesi, non è stata in grado di dimostrare nulla, oggi dopo cinque anni la si ripropone in chiave moderna ed elaborata con l’unico scopo di accusare, intimidire, fermare ogni forma di opposizione nei confronti del potere coloniale costituito.

Che ruolo hanno i mass media in questo contesto? Quale è il rapporto fra informazione di massa e repressione?
Il ruolo dei mass media è sempre lo stesso, le procure "elaborano" le veline, i mezzi d’informazione le pubblicano, fino a quando a distanza di qualche anno le stesse non vengono smentite dai fatti e smascherate come veri e propri teoremi, sceneggiature già viste.

In Sardegna (dati settembre 2011) su 2.035 detenuti , 537 sono in attesa di giudizio (di questi 238 non hanno subito ancora nemmeno un processo, mentre gli altri hanno fatto appello). Le carceri dell’Isola ospitano 863 cittadini stranieri, tenuti lontano dai loro paesi. Molti detenuti sardi sono rinchiusi invece nelle carceri della penisola. Protocolli e leggi per l’applicazione della territorialità della pena non sono applicati, nonostante le migliaia di firme raccolte e le prese di posizione delle istituzioni. Che cosa ne pensi?
Per quanto riguarda la territorialità della pena, la norma esiste già per legge. Il vero problema è di natura repressiva nel senso che chi si oppone a questo regime, al capitale multinazionale, alle sue lobby e fa parte della classe, non può godere neanche di ciò che lo stesso potere "democratico borghese" ha già previsto nelle sue norme: la classe e tutti coloro che si oppongono al sistema capitalistico non hanno alcun diritto a cui fare riferimento, tranne quello di finire in galera.

Come hai precisato più volte, il processo che ti ha coinvolto - e che purtroppo proseguirà ancora - è un "processo politico". Nel maggio 2010, prima ancora del rinvio a giudizio, sei stato licenziato da Trenitalia. Un licenziamento politico?
Il mio licenziamento è chiaramente un atto politico in quanto effettuato contro norme di legge molto esplicite in materia e contro le stesse norme contrattuali. Quello che mi preme invece sottolineare è l’aspetto repressivo del licenziamento applicato nei confronti dei lavoratori che per le loro lotte finiscono in galera, in questi casi infatti il licenziamento è volto a colpire le loro possibilità di vita in termini economici, sociali, umani, la loro stessa dignità.
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